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Mostrerei questa mia foto su uno schermo gigante?

| Bettina Bichsel

Nella maggior parte dei casi, quando i giovani postano foto sexy di sé su Instagram, a noi adulti scatta il campanello d’allarme. La rappresentazione di sé e del proprio corpo contribuisce però anche a rafforzare l’autostima. Ma come fare perché questo avvenga in chiave di empowerment?

Recentemente, una cara amica mi ha confidato di provare sentimenti contrastanti verso il primo grande viaggio di sua figlia. La diciannovenne si è recata in aereo con un gruppo di amiche in Thailandia, dove, dopo una tappa a Bangkok, ha partecipato al Full Moon Party di Koh Phangan: «Credimi! Non puoi neanche immaginare il bikini che si è comprata per l’occasione. È meno di un francobollo.»

Per finire non ho avuto bisogno di immaginare nulla: ho visto le foto che sua figlia ha postato su Instagram. Devo ammetterlo: le ragazze sono stupende, si vede che si divertono un mondo, che si sentono bene nel proprio corpo e che celebrano questo fatto. Lo trovo fantastico, perché so per esperienza personale che sentirsi così a quell’età è tutt’altro che scontato. Senza contare che conosco molto bene Lena (nome di fantasia). È vero che attualmente assapora a piene mani la vita festaiola dei giovani. Ed è pure vero che in questo contesto a lei e alle sue amiche piace civettare con la propria femminilità. Ma so che si tratta di giovani donne molto intelligenti, consapevoli e responsabili.

Chi decide infatti quando una rappresentazione è fatta con empowerment autodeterminato e quando non lo è?

Sono come sono o mi oggettifico?

Tuttavia i sentimenti contrastanti che tormentavano la mia amica si insinuano anche in me. E mi torna alla mente un tema di discussione sollevato tempo fa a margine di una conferenza su media e sessualità: chi si presenta su Instagram, TikTok e simili con licenziosità (in particolare se giovane), lo fa con autodeterminazione in chiave di empowerment o piuttosto si sessualizza rendendosi un oggetto di libido?

Il confine è molto sottile, mi pare. Chi decide infatti quando una rappresentazione è fatta con empowerment autodeterminato e quando non lo è? Dubito che sia possibile trovare una risposta di validità universale a questa domanda. In fin dei conti, quando si osserva un fenomeno, convenzioni sociali e norme culturali si mischiano a valori familiari e posizioni personali. 

Inoltre, come spiega la professoressa Ulla Autenrieth della Scuola universitaria professionale dei Grigioni, esperta in scienze sociali e dei media, i confini sono in continuo mutamento: «Ciò che oggi percepiamo come "normale", era considerato solo qualche anno fa un tabù. Lo si vede molto bene in casi come il bikini, la minigonna o le magliette che lasciano la pancia scoperta.». Ma non solo: «Praticamente qualsiasi attività può essere sessualizzata: questo perché chi guarda può interpretare un riferimento sessuale anche dove l’autore non intendeva assolutamente darne uno.».

Io sono chi sono, a prescindere da ciò che pensi di me. Empowerment significa liberazione.

Natascha Nassir-Shahnian

Curare i traumi con il twerking

Scrivo questo testo nel giorno in cui cade la giornata internazionale della donna. A Berlino, dove mi trovo al momento, questa ricorrenza è diventata da poco un giorno festivo. Oltre alle manifestazioni per i diritti delle donne vengono organizzati anche cosiddetti flashmob di twerking. Il termine twerking indica un tipo di danza in cui si muovono principalmente sedere e fianchi. Alcuni lo chiamano semplicemente "sculettare". Gli eventi sono stati organizzati da Maïmouna Coulibaly, un’insegnante di danza e autrice che propone un’offerta di corsi che chiama «booty therapy» (letteralmente «terapia delle chiappe»). I video di persone che fanno twerking si possono facilmente connotare sessualmente.

Ma l’obiettivo di Maïmouna Coulibaly è tutt’altro, come spiega in un’intervista del Berliner Zeitung: «Ogni qual volta ho vissuto un episodio di violenza (sessuale, razzista o di altro tipo) mi sono rifugiata nella danza: facevo ondeggiare le mie chiappe e scacciavo il trauma dal mio corpo attraverso il twerking. Questo mi ha permesso di acquisire controllo sul mio corpo e di guarire i miei traumi.». E se anche fosse che, ballando, lei e i suoi allievi si sentissero sexy, la sensualità non è per lei in primo piano.

Contro il body shaming e la realtà ritoccata

Anche altri influencer quali Melodie Michelberger, Tiffany Ima, Georgina Cox, Charlotte Kuhrt o Stevie Blaine (per menzionarne solo alcuni) si occupano di body positivity. Questi personaggi presentano infatti con orgoglio i propri corpi, che non rispondono ai canoni di bellezza occidentali, raccontando quanto è stata lunga la strada per arrivare ad accettarsi così come sono e parlando apertamente dei commenti denigratori che hanno dovuto o devono ancora continuamente affrontare.

Sara Puhto, Celeste Barber e Danae Mercer vogliono, dal canto loro, attirare l’attenzione sul fatto che su Instragram e altri social media non viene quasi mai mostrata la realtà. Programmi quali Photoshop e filtri vari vengono infatti utilizzati per far sembrare la pelle più regolare, la vita più sottile, le gambe più lunghe e il corpo più muscoloso.

Anche questi influencer mostrano spesso e volentieri molta pelle, ma lo fanno con un preciso messaggio: qualunque sia il tuo aspetto, sei bello o bella così come sei! E ancora: non credere a tutto ciò che vedi sulle reti sociali e sulle piattaforme video!

I genitori devono chiedersi come hanno sviluppato certe opinioni e quali timori e principi morali vi si celano.

Ulla Autenrieth

Non lasciarsi condizionare dal giudizio degli altri

Empowerment significa appunto liberarsi dai tipici ideali di bellezza e dagli stereotipi. Oppure, come scrive Natascha Nassir-Shahnian in un fascicolo della fondazione Heinrich-Böll: «Io sono chi sono, a prescindere da ciò che pensi di me. Empowerment significa liberazione.». A questo scopo devo innanzitutto scoprire chi sono veramente e come vorrei essere. Domande che assorbono in modo particolare i giovani e a cui (come ben sappiamo anche noi) non è sempre facile dare una risposta.

Gli adolescenti devono avere la possibilità di sperimentare. Le star e gli influencer che essi prendono a modello danno loro spunti per costruire la propria identità. E quando postano foto e video, ricevono riscontri dai quali traggono insegnamento per il proprio sviluppo. A volte questo accade secondo l’approccio per tentativi ed errori: ciò che funziona viene portato avanti, mentre ciò che riscuote pochi like viene subito abbandonato.

Discutere di tutto, anche delle proprie perplessità

Mostrarsi è però sempre anche una questione delicata. È pertanto importante fornire sostegno ai giovani nella fase della ricerca della propria identità. Un’idea è quella di guardare con i propri figli qualche esempio di influencer e poi discuterne assieme:

  • Che impressione danno le foto e i video postati?
  • Quali riflessioni ed emozioni suscitano?
  • Cosa percepiamo come bello e positivo e cosa come negativo, dozzinale o repellente? Per quale motivo?
  • Abbiamo perplessità o timori?
  • Con che tipo di commenti hanno reagito le altre persone ai post?
  • Che cosa ne pensiamo di questi commenti e come reagiremmo se li ricevessimo noi?


Ulla Autenrieth consiglia inoltre agli adulti di riflettere anche sulle proprie posizioni: «I genitori devono chiedersi come hanno sviluppato certe opinioni e quali timori e principi morali vi si celano.».

I giovani, dal canto loro, spesso non riflettono su tutto prima di pubblicare qualcosa. «Molti sono convinti che solo la loro cerchia di amici possa vedere le foto e i video che hanno postato», spiega Peter Holzwarth, docente in educazione ai media all’Alta scuola pedagogica di Zurigo. «Ma oggi è per esempio prassi comune che i responsabili delle risorse umane vadano a guardare i profili digitali dei candidati. A seconda dei casi, ci si potrebbe dunque giocare il futuro professionale per colpa di un post.». La sperimentazione di sé nella sfera privata è una cosa, ed è assolutamente legittima. Ma non appena si tratta di pubblicare qualcosa su piattaforme quali Instagram o TikTok, Holzwarth raccomanda di fare il seguente ragionamento: «Postare solo contenuti che si sarebbe disposti ad annunciare con un megafono o a mostrare su uno schermo gigante in Piazza federale.».

Bettina Bichsel è giornalista e redattrice. Tra le sue varie attività, scrive anche per il blog di Giovani e media.