Guardavamo il gruppo crescere rapidamente fino a raggiungere nel giro di poco tempo i 100 membri. Abbiamo letto come alcuni partecipanti alla chat hanno pubblicato commenti omofobi e meme razzisti, e come i nostri figli, insieme a una maggioranza di altri giovani, hanno confutato gli «estremisti». Abbiamo visto come Tessa, fondatrice del gruppo, e i miei figli, quali co-amministratori, non hanno esitato a buttare fuori dalla chat i provocatori. E poco dopo hanno escluso anche noi e tutti gli altri adulti. Questo lo potevamo anche capire: gli adolescenti volevano parlare tra loro senza sentirsi osservati da noi.
Regolarmente chiedevamo come stesse andando con la chat. «Siamo arrivati a 300 membri. E ieri ho dovuto eliminare dieci idioti. Li avevo avvertiti, ma dato che non la smettevano di provocare li ho buttati fuori», raccontava Tessa. Alzava gli occhi al cielo, ma era chiaro che fosse allo stesso tempo orgogliosa del suo compito di amministratrice digitale. A volte il collettivo admin dei nostri figli si appartava per discutere sull’atteggiamento da adottare nei confronti di un’affermazione o un determinato membro, su quali siano i limiti tra divertente e inopportuno. E tra spiaggia e piscina, baracchino dei gelati e cena continuavamo a parlare con loro di discriminazione, libertà di pensiero, censura, ciberbullismo e odio in rete.